In ricordo di Antonio Rostagno

Non è facile per me scrivere un ricordo di Antonio Rostagno. Se la musicologia italiana ha perso un protagonista, io ho perso soprattutto un amico. Non lo vedevo da qualche anno ma, come succede se si è amici davvero, quando ci incontravamo era come se ci fossimo visti il giorno prima: può sembrare banale ma era davvero così. Me lo trovai di fronte la prima volta, ormai molto tempo fa, all’esame per il dottorato in Storia e analisi delle culture musicali, all’Università Sapienza di Roma, ed uscii da quella stanza con la sensazione di aver fallito, tanto martellanti erano state le sue domande che miravano a comprendere se davvero possedessi tutte le competenze per il mio progetto di ricerca. Invece andò benissimo e poco tempo dopo mi volle con sé per aiutarlo nei tantissimi esami di Storia della musica. Furono proprio quelle giornate faticose, intervallate dai caffè e da qualche battuta scambiata con Pierluigi Petrobelli che spesso veniva a trovarci, a legarmi sia a lui che a Ennio Speranza (che pure lavorava con noi) ben oltre i tempi del dottorato. Per anni abbiamo passato tanto tempo assieme: abbiamo esplorato librerie, condiviso cene e passeggiate, discusso di musica e di politica, della situazione dell’università e dei nostri fatti privati, riflettendo sulle nostre aspirazioni, puntualmente frustrate e disattese.

Non ha avuto una vita facile, Antonio: lontano dagli affetti e solo in una città come Roma che, come un’antica Grande Madre del Mediterraneo, nutre ma può anche uccidere. Scalpitava, Antonio: soffriva molto per gli innumerevoli problemi che la vita accademica presenta. Mai, però, l’ho visto trattare male uno studente, mai l’ho visto alterarsi per qualsiasi motivo, mai l’ho visto abusare della sua posizione con qualcuno. Fermo, quando era necessario, talvolta inflessibile, ma sempre cortese, sempre prodigo di spiegazioni e chiarimenti, Antonio aveva grandi doti umane e non è una frase fatta perché chiunque lo abbia conosciuto potrebbe testimoniarlo. Sempre sorridente ma con un velo di tristezza che si poteva sempre scorgere dietro i suoi modi gentili. Lavoratore instancabile, viveva in una sorta di loop: studio “matto e disperatissimo”, confronto con altri studiosi, trasferimento del sapere, riscontro. E ripartiva. I suoi studenti lo adoravano e lui li adorava ma gli piaceva qualsiasi situazione in cui potesse parlare di ciò di cui si occupava. Da qualche anno aveva cominciato anche a collaborare col Festival della Letteratura di Mantova: troppo tardi, troppo poco.

Oltre all’uomo, dunque, c’è anche lo studioso, uno studioso di grande rigore e di grande valore che è giusto ricordare per quello che ha fatto, immaginando quello che avrebbe potuto fare vista la divorante passione che lo animava. Uno studioso che aveva approfondito moltissimo la musica ottocentesca, i repertori pianistici e il teatro d’opera di quel periodo e basta leggere il suo Kreisleriana, pubblicato nel 2007 con l’ormai scomparsa casa editrice palermitana L’Epos, per cogliere la sua intelligenza, la sua trasversalità, la sua capacità di tenere assieme musica, letteratura, filosofia all’interno del contesto che le mette in relazione: quello che, per me, caratterizza lo studioso di alto livello che ingloba la specializzazione e la supera in una sintesi superiore. Conosceva molto bene anche la musica contemporanea, ricordo una sua bellissima lezione su Lux Aeterna di Ligeti, ma gli si poteva parlare anche del rock e del rap e poi di cinema e di fumetti perché a lui, vero intellettuale, nulla sfuggiva e per lui tutto era interessante. Una volta, in occasione di un convegno a Napoli, gli proposi un giro in certi vicoli isolati, dove davvero in pochi si avventurano, per mostrargli alcuni aspetti della tradizione popolare su cui all’epoca lavoravo in chiave antropologica: pur avendolo avvertito che si poteva correre qualche rischio, lui, che aveva intuito la potenza della cultura napoletana, mi chiese di non preoccuparmi di questo, mi seguì per ore e volle che tutto gli fosse spiegato in ogni minimo dettaglio. Antonio, insomma, non poteva fermarsi alla musica che studiava, non gli bastava, perché dalla musica partivano mille fili che andavano in tutte le direzioni e lui cercava di seguirli tutti. 

Credo che bisognerebbe raccogliere i suoi scritti in un volume, magari anche tirato in poche copie e distribuito solo alle biblioteche, in modo che il suo contributo non venga disperso e che chiunque possa ritrovarvi i mille semi che ha sparso in tanti anni di lavoro. Sarebbe un bel modo per ricordarlo e sono certo che sarebbe l’unica cosa che lui vorrebbe: fare in modo che quello che ha scritto gli possa sopravvivere e produrre altre idee, altre intuizioni, altri percorsi, altre emozioni. 

Ciao Antonio.

                                                                                                                      (Giovanni Vacca)

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